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Intervista a Enrico Grossi

Enrico Grossi abita a Suzzara in provincia di Mantova, terra del Premio Suzzara, del festival Nebbia Gialla, di nebbia fitta, del fiume Po e incrocio di storie e leggende che danzano leggere nell’aria, danzano in riva al fiume e si nascondono nella nebbia intonando canti che, come le sirene portano il viandante fuori rotta.

 

D - Alla soglia dei sessant’anni pubblichi il tuo primo romanzo e tuo secondo libro; il precedente è una raccolta di racconti prevalentemente noir, horror e fantascienza – Incubi e Immagini.       

 Per alcuni scrivere è una passione, per altri un tormento per tutti è il desiderio di raccontare storie. Dimmi che cosa è per te.

  

R - Scrivere è una cosa che ho sempre fatto, come leggere, la voglia di raccontare ce l’ho dal tempo della scuola, sono da sempre un lettore onnivoro, un frequentatore giornaliero di biblioteche. Quella di Suzzara è la mia seconda casa assieme al Palaroller e al circolo degli scacchi.  Un’esigenza per me raccontare, non sempre continua, ma frequente.

  

D - Raccontaci l’uomo che sta dietro la pagina scritta. Diplomato in agraria, hai lavorato come giardiniere. Ora lavori per una cooperativa sociale, sei giornalista freelance di cronaca locale e sportiva, gestisci il magazine on line Suzzara-Week, scacchista, fondatore nel 1984 del Roller Suzzara Hockey Club (Hockey a rotelle) e presidente fino al 2011 ora sei dirigente.

  

R - Sono una persona che vuole occupare il suo tempo nelle cose in cui crede. Mi spaventa la prospettiva di passare il tempo che mi resta, in un bar a litigare giocando a carte o a parlare di calcio (per me lo sport è soprattutto quello a bordo campo). Scacchi, Hockey pista, Magazine on line, a livello economico non mi hanno dato granché, però rifarei tutto lo stesso, e continuo a farlo. La vita da lavoro fisso, week end in gita o fuori a cena, vacanza solita, e il resto del tempo al bar mi terrorizza, sarebbe come invecchiare prima del tempo: la mia vera e unica ossessione è il tempo che passa. Un rimpianto che ho è di essere nato forse nel posto sbagliato, se fossi nato oltre oceano, forse sarei andato al College, all'Università magari avrei giocato a Football Americano (altro sport che mi piace un sacco) o a Hockey Ghiaccio, ma sono nato qua, ai tempi della televisione in bianco e nero, e queste cose le potevo solo sognare.

  

D - I tuoi personaggi vivono una realtà di incubi e immagini angoscianti: una serie di partite a scacchi contro il tempo spesso troppo veloce. I tuoi protagonisti arrancano e non sempre vincono. Gli scacchi sono una passione, uno stile di vita?

  

R – Gli scacchi, intanto sono uno sport come un altro, c'è tutto: tensione, preparazione, fatica fisica e psicologica. Per me sono una passione di cui non posso fare a meno. La sera al bar cerco qualcuno con cui giocare, gli altri giochi: le carte e il bigliardo non mi attirano. Negli scacchi sei tu che giochi, non te la puoi prendere con nessuno.

 Poi fu il 1972. Come molti in Italia in quella fine estate a Reykjavík in Islanda si giocava la finale del mondiale Spasskij-Fisher: gli scacchi divennero mediatici. Bobby Fisher il ragazzo di Brooklin che sfidava il colosso della scuola scacchistica sovietica dopo anni di dominio vinse giocando in modo a dir poco geniale demolendo Spasskij. Guardo ancora le sue partite anche quelle prima del match, sono uno spettacolo anche oggi per chi ama il gioco. Fu un primo piccolo colpetto alla cortina di ferro, come la vittoria nella finale Hockey ghiaccio alle Olimpiadi Invernali di Lake Placid nel 1980. Dei ragazzi della Nazionale USA, provenienti dai College, allora i professionisti NHL erano esclusi dai giochi, gli USA batterono in semifinale l'invincibile URSS, formata dai giocatori dell’Armata Rossa. Miracle on ice del 1989 e Miracle del 2004 sono due film ispirati da quella vittoria.

 Fisher non resse al successo, perse il titolo a tavolino contro Karpov tre anni dopo. Nel 1992 con Spasskij si prestò alla farsa del rifacimento del mach nella Serbia di Milošević. Nel 2004, fu radiato dalla federazione USA, bandito dagli USA, morì solo e povero in preda a deliri in Giappone nel 2008. Ma per me è sempre quello del 1972.

 Oggi gli scacchi sono un fenomeno globale, la rete ha aumentato i giocatori, nei tornei si vedono frotte di ragazzi e ragazze avvicinarsi al gioco, non tutti stanno davanti alla play station. E abbiamo anche un campione italo Americano Fabio Caruana: ha conteso a Londra il titolo a Magnus Carlsen (Norvegese Campione in Carica) perdendo agli spareggi lo scorso novembre. Oltre ad essere uno sport, gli scacchi, sono anche un modo di pensare, di esprimersi, se pensiamo che nella lingua italiana si usano molti dei termini di gioco: sotto scacco, stallo, arroccamento (arrocco l'unica mossa dove si muovono due pezzi) gambetto, fianchetto, presa al passo (en passant) Tratto (mossa) e altro.

  

D - Come trovi le storie che decidi di raccontare?

  

R - A volte mi vengono spontanee, osservando certe situazioni quotidiane, accumulo appunti, poi ci scrivo una storia attorno, anche influenzato dalle continue letture di libri, riviste, giornali, fumetti come Turner il protagonista del film “I Tre Giorni del Condor” che non smetto mai di rivedere, tratto da un romanzo di James Grady. I miei personaggi sono sempre in bilico, in situazioni scivolose, come in una partita a scacchi, dove l'errore è sempre in agguato, dove la tua mossa è anche quella dell'avversario. Non ho personaggi seriali né super investigatori, descrivo le situazioni di persone in difficoltà, che a volte ne escono bene altre volte no, come nel finale memorabile de “I Tre Giorni del Condor”.

  

D - C’è qualche personaggio che ti assomiglia?

  

R - Un po’ tutti. C'è una parte di me, in ognuno: protagonisti e non.

  

D - Marco Bosio, il protagonista de Il dedalo di Vauban, mentre trasporta un camion di vino dall’Italia alla Francia finisce fuori strada a causa di un momentaneo stato di follia del navigatore. È un argomento interessante il cambio di rotta accidentale. È un obbligo a fermarsi. Un messaggio importante.

  

R - Marco Bosio per lui è obbligo fermarsi, sì, in quel momento s'accorge di essere solo un pezzo di gioco, chiuso in un tempo circolare, come Turner (Robert Redford) nel film di Sydney Pollak. Come Turner accetta un lavoro, che all'inizio pare normale, poi ne viene travolto, cerca di uscirne in tutti i modi. Nel mio finale, la vicenda cambierà la vita in modo definitivo a Marco, con un segreto da portare chiuso in qualche meandro della mente, la sua esistenza non sarà più la stessa, come gli dice il Joubert (Max Von Sydow, il killer del film di Pollak, con l'aspetto di gentiluomo francese che come hobby dipinge i soldatini) a Turner nel mio romanzo ha un altro nome, non posso andare oltre altrimenti rivelerei il finale.

  

D - Il motto di Suzzara è Post fata resurgo “dopo la morte mi rialzo” e come simbolo una fenice sopra un rogo, c’è molta speranza in questo. Pensi che i tuoi personaggi possono dire di essersi tutti rialzati alla fine? Doloranti, acciaccati, impauriti, pensi hanno trovato una pallida luce alla fine del tunnel o sono ancora imprigionati in quei luoghi bui?

  

R - Non tutti si rialzano, alcuni escono a metà percorso sconfitti, come il protagonista di Halloween – Il contratto firma il patto con il diavolo, per avere l'amore della donna fatale desiderata, s'accorge della fatuità del gesto. Un Angel Heart che, a differenza del personaggio del film di Alan Parker che finisce all'inferno con il fatidico ascensore (altro film sconvolgente), ne esce in tempo, l'argomento di Faust e del patto con il diavolo, mi ha sempre affascinato, non a caso ho riscoperto Dante in età matura grazie ai dvd con le letture di Vittorio Gassman. Poi c'è il comandate della stazione spaziale del Limite della Paura, un Jean-Luc Picard sui generis, trova il coraggio di affrontare situazioni più grosse di lui, Io sono il problema un omaggio a Interceptor, dove la certezza non esiste in un mondo post-progresso, prodotto finale dell'economia fittizia, che s'illude di produrre ricchezza con il denaro, i titoli e le speculazioni, così nel mondo reale si uccide per un litro di kerosene. I protagonisti di queste vicende escono dal tunnel? Non completamente, nella vita normale le parti buie, anche se superate, non sono cancellate totalmente, restano immagazzinate in qualche angolo della memoria.

     

D - Incubi e immagini, racconti impossibili: lo sono davvero? Pensi che anche le storie più inverosimili possano accadere realmente?

  

R - Sono un mix di tutto, non lo so se possono accadere realmente, ho cercato di raccontare ossessioni anche mie, l'ha fatto anche Edgar Allan Poe in un’altra epoca, non mi voglio paragonare a tanto, ma una dose inverosimile nel quotidiano oggi aleggia.

 

D - All’inizio del romanzo Il dedalo di Vauban racconti di Sébastian Le Preste de Vauban e citi “Trasformava i vincoli imposti dalla natura in vantaggi difensivi, erigendo le fortezze su bastioni rocciosi.” Anche in questo caso l’uomo prende a braccetto gli ostacoli e ne diventa amico. Un pensiero forte, ricco d’insegnamenti contro le difficoltà, gl’inciampi e l’incapacità di vedere oltre la fatica. Sei così anche tu?

          

R - Sono così anche io, davanti agli ostacoli, prima mi deprimo, poi ci penso, agisco e reagisco, non è detto che riesca a trovare la soluzione, come voglio io. Ho fatto molte cose al limite, come un’occupazione nel 1986 di un consiglio comunale durante una seduta, con i ragazzi e le ragazze dell'hockey e del pattinaggio: ci avevano escluso dal palasport nascituro a Suzzara, con assurde motivazioni tecniche. Non ho mai mescolato sport e politica a fini elettorali, ho dato la maturità agraria a 36 anni da privatista, studi interrotti a 21 anni, una vita da canguro: irregolare, sempre in tensione, saltando da un impegno all'altro, vissuta d'impulso, cercando di fare tutto ma non me ne pento. Forse sono vivo proprio grazie a tutto questo.

 

D - Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

 

R - Per quello che riguarda la scrittura vorrei essere letto oltre alla cerchia locale. So che non si vive di questo, né di scacchi, né di hockey pista, vorrei scrivere un romanzo di fantascienza alla Alfred Elton Van Vogt, alla Damon Knight, alla Robert Anson Heinlein o alla Arthur C. Clarke. Le mie prime letture sono state gli Urania, la rivista ROBOT di Vittorio Curtoni che acquistavo con le prime mance: niente figurine né sigarette. A 20 anni nel 1979 sono stato direttore di una fanzine di F.S. “EXPLORA” ciclostilata assieme ad altri, uscirono solo tre numeri.

Urania, Gialli e Oscar Mondadori, mi ricordo ancora i primi: Crisalide, Il Giorno dei Trifidi di John Wyndham, Fahrenheit 451, Cronache Marziane di Ray Bradbury, 1984, la Fattoria degli Animali di George Orwell. Non-A di A. E. Van Vogt, ma soprattutto 2001 Odissea nello Spazio il film del secolo del 1900 che va oltre il genere.

 Non lo so, ma dopo i 60 anni il tempo si accorcia; ho il terrore che siano gli ultimi anni buoni di vita, scrivere è un duro impegno, dovrei adottare il metodo J. Ellroy, ma faccio un altro lavoro, le ore sono poche, gli anni che restano non moltissimi e trascorrono velocemente.

 

Ringraziamo l'autore Enrico Grossi per avere risposto alle domande.