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Intervista a Barbara Cobianchi

Torino, una domenica di primavera.

 Saro è in cima a un palazzo e scruta la strada sottostante. Ad un tratto, fra la gente che passa, gli sembra di riconoscere Lena, una ragazza dai capelli rossi che ha conosciuto qualche mese prima. Vuole raggiungerla velocemente prima che gli sfugga di nuovo. Con un lenzuolo legato in vita si lancia nel vuoto nello stesso modo in cui ci si lancia da un trampolino. Il volo s’interrompe sul davanzale dell’appartamento di Leo e Bart. Un inizio dal tocco leggero, come Calvino insegna, per un romanzo che svoltato l’angolo mostra storie problematiche e tormentate che cambiano direzione all’angolo successivo mostrando serenità, sorrisi e amori: un caleidoscopio di personaggi, storie, tradizioni, ricordi e progetti futuri.

  

D. In questa città s’incrociano i destini dei personaggi. Per lavoro, per sfuggire alla guerra, per amore dell’avventura, qualunque sia la ragione ogni trasferimento porta con sé tradizioni, affetti famigliari, un passato più o meno ingombrante e un futuro dai contorni imprecisi. Com’è nato questo romanzo?

  

R.  È un romanzo nato da luoghi, suggestioni, impressioni e dalla voglia di riflettere su questioni che mi stanno a cuore, come l’immigrazione, l’integrazione, l’idea di famiglia nella società contemporanea, quella italiana legata da sempre alle tradizioni, o la paura del diverso, intesa in senso allargato.

  

D. Leo e Bart vivono in un bilocale da quando la loro figlia Sarg si è trasferita a Venezia per lavoro. Prima che Saro atterrasse sul loro balcone Leo era impegnato a tappezzare la stanza incollando fogli di giornale sui muri del salotto.

Desiderio di trasgredire o forma d’arte?

 

R.  In realtà, attraverso i giornali, Leo appende al muro il mondo, quello che ha smesso di guardare dall’alto, quello che sta fuori.  E al tempo stesso... pagine di giornale dopo pagine di giornale... il muro si ispessisce, la stanza si stringe... Ma non vorrei spiegare oltre, per lasciare al lettore la libertà di cogliere il simbolo e intuirne il significato al termine della storia.

  

D. Saro è cresciuto con i genitori su un’isola che è poco più di uno scoglio nel bel mezzo del mar Mediterraneo. I suoi occhi di bambino sognano guardando l’orizzonte, il suo spirito si mette a volare. Un ragazzino diverso che ha qualche cosa che non va. La maestra a colloquio con il padre è categorica: “Ecco vede è una faccenda seria… Saro sogna.” In questo caso con accezione negativa. È così pericoloso sognare?

  

R.  Sognare è ciò che porta Saro lontano, ciò che gli fa trovare la propria strada, una nuova famiglia: sognare perciò non è per nulla pericoloso, anzi è la spinta a volare. L’accezione negativa con cui la caratteristica principale di Saro, l’istinto a sognare appunto, viene presentata è il punto di vista di chi, in questo caso insegnante o genitore che sia, vede, nel contesto del piccolo mondo attaccato alle tradizioni in cui Saro è nato, il “pericolo” che il sogno allontani proprio da quelle stesse tradizioni, che porti nel mondo sconosciuto al di là del mare. È il punto di vista di chi ha paura di scoprire cosa c’è oltre l’orizzonte, di chi vede il pericolo nel cambiamento.

  

D. Famiglia. Una parola forte che definisce il passato e spesso ne condiziona in modo irreversibile il futuro. Dalla famiglia si può tornare oppure ci si può allontanare definitivamente. Qualunque sia la famiglia a cui apparteniamo le tradizioni, l’educazione, le convinzioni fanno di noi ciò che siamo e spesso ne determinano le nostre azioni. Cos’è per lei la famiglia?

  

R. Credo che essere una famiglia significhi ritrovarsi a tavola la sera, farsi stretti sul divano per starci tutti, volersi bene anche quando si sbattono le porte per la rabbia del momento, partire per le vacanze in un’auto stipata di bagagli, litigare e fare la pace, svegliarsi e trovare la colazione pronta e mille altre cose che ogni giorno nascono dall’affetto, dall’amore.  Non credo, come a volte si crede, che bastino o servano i legami di sangue per fare una famiglia.  Se non c’è l’amore che famiglia è?

  

D. Sarg è una ragazza che prende di petto la vita, ha un mondo dentro di sé, un turbinio di emozioni, un’irruenza e un bisogno di camminare con le proprie gambe. L’incontro con Saro è puro istinto, lo trascina per Torino raccontando di luoghi e ricordi. Trova sensato pensare ai luoghi come post-it nella geografia dell’anima?

 

R.  Nei luoghi che attraversiamo lasciamo come una traccia, un’impronta, ed essi, così come accade a Sarg, diventano un po’ nostri. È quello che succede con la frase di un libro che ci sembra familiare o con i versi di una canzone che ci risvegliano emozioni, così, forse le nostre diventano anime colorate da post-it.

  

D. Saro, da bambino, seduto sulla spiaggia, passava le giornate a guardare il mare: sogna le terre che sono oltre. L’orizzonte per Saro ha la stessa valenza della siepe per Leopardi?

  

R.  Direi di no. Per Leopardi il “piacere” stava nell’indeterminato al di là della siepe, di più, l’ostacolo della siepe è proprio ciò che non facendo cogliere cosa c’è al di là, permette all’immaginazione di cogliere “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”.  Saro, invece, sa che al di là del mare c’è un mondo da conoscere e se pure il mare è un ostacolo allo stesso tempo è anche ciò che bisogna superare per desiderio di cambiamento e conoscenza. Del resto se il tratto prevalente del pensiero leopardiano è il pessimismo, pessimista non è certo Saro.

  

D. Il passato è declinato in modi diversi. Pesante come un macigno oppure dolce come un abbraccio. Sono indiscreta se le chiedo com’è il suo?

  

R. Dolce amaro, come tutti i passati. Credo che ognuno di noi ricordi momenti dolci come abbracci e abbia, se non macigni pesanti sulle spalle, qualcosa a cui guarda con rimpianto, dispiacere o dolore. E anch’io oggi, guardandomi indietro, ricordo momenti dolci, come quelli in cui ho tenuto in braccio per la prima volta i miei figli, e faccio i conti con qualche dolore, messo a tacere dietro il sorriso di tutti i giorni.

  

D. Vite che s’incontrano e si scontrano: il destino ha creato le occasioni che i personaggi vivono. Non mi soffermo a svelare ciò che è possibile leggere, ma le chiedo che cosa ne pensa di caso, destino, casualità?

  

R. Mi piace pensare che, se abbiamo un destino, siamo noi a tracciarlo, a riscriverlo, a cambiarlo ogni volta che scegliamo quale strada percorrere.  Mi piace credere che forse ci si incontri per caso, ma nemmeno poi tanto, perché il simile cerca il simile, ed è una questione di fiuto, di pelle.

  

D. Moah è il proprietario di un ristorante libanese a Torino molto apprezzato dai clienti che tornano per trascorrere serate piacevoli, per festeggiare compleanni e ricorrenze. Un viaggio oltre i confini sulle ali di quei piatti e quei sapori così particolari. La cucina può essere considerata la prima e più immediata forma di conoscenza di un’altra cultura?

  

R. Credo che sia così, sì. A tavola, fra piatti e sapori nuovi, comincia un viaggio un po’ come quello di Saro, verso il nuovo, a volte verso il lontano. E a tavola, un po’ come succede a Saro e Sarg, si intessano relazioni, si comincia ad abbattere le barriere, ci si riconosce un po’ simili. Penso, insomma, che la cucina possa, sì, essere considerata una forma immediata di conoscenza di un’altra cultura, ma anche che possa essere il primo passo verso l’integrazione.

  

D. Progetti per il futuro?

 

R. Effettivamente, sì. Ho in cantiere un nuovo romanzo, sono alle prime battute, ma tanta è la voglia di accompagnare Sarg e Saro a conoscere i lettori, tanto spero che quest’estate mi dia il tempo per fare amicizia con i nuovi personaggi che stanno prendendo forma. In qualche modo intuisco che questa nuova storia avrà forse un respiro simile a “Di terra, di mare, di cielo”, però di più non saprei dire, sono i personaggi, di solito, a tracciare la loro strada.