Notturno di Agostino Roncallo con cd di Michele Anelli - Morlacchi Editore
Laureato in Storia della lingua italiana nel 1983 presso la Facoltà di Lettere di Genova, oggi docente di ruolo in Letteratura Italiana e Storia presso l'ITIS Cobianchi di Verbania. Ha inoltre insegnato “Sociologia dell'educazione” per i corsi SIS dell'Università di Torino. Responsabile del Centro di Ricerche sul Linguaggio e l'Educazione (CRLE) e direttore della collana di volumi “Nuovi Quaderni del Crle” per l'editore Morlacchi di Perugia. In qualità di segretario regionale del Giscel Piemonte ha organizzato il I Incontro Italo-francese di sociolinguistica (Stresa 1989) e il convegno nazionale del Giscel “Gruppi di Intervento e Studio nel Campo dell'Educazione Linguistica” (Stresa 1990).
D - Nella quarta di copertina è raccontato in una sola riga il senso di tutto il libro. Sono parole precise, incisive. La scelta ragionata di ogni singolo lemma, il posto che occupa nella frase, dà all'intero libro un susseguirsi di immagini, di emozioni, di fatti che non possono essere taciuti. Come è nato questo libro?
R - Il libro nasce da un senso di vuoto. Dalla volontà di completare un puzzle a dispetto della mancanza di alcune tessere. I drammatici fatti del nuovo secolo hanno generato una amarezza di cui non capivo l’origine. Ci ho pensato, naturalmente. Ho capito allora che di quei fatti avevo una visione parziale, incompleta. Che percorso avevano fatto i migranti per arrivare sul suolo italiano, che cosa nasconde la parola “femminicidio”, cosa non sappiamo della scuola Diaz e del crollo del ponte Morandi? Riempire quel vuoto significava rivivere le emozioni dei protagonisti, essere in loro e con loro, senza artifici. Allora ho fatto tante telefonate, ho chiesto incontri: a Genova, città in cui sono nato, mi sono recato nel quartiere della Diaz dieci anni dopo i fatti e, con un registratore in tasca, ho fermato per strada gli abitanti del quartiere. Ho scritto con le loro parole e con le loro emozioni, senza inventare nulla.
D - Scrittura umana? Quanti tipi di scrittura esistono?
R - La “Scrittura umana” è il titolo che in un primo tempo avrei voluto dare al libro. Ma poi ho pensato che potesse apparire ambizioso o venire equivocato. Ho scelto allora un più semplice “Notturno” per rappresentare il buio attraverso il quale a ogni costo volevo vedere una luce. È “umana” per me una scrittura che non solo parla dell’essere umano ma che respira con esso. Mi spiego meglio: il nostro parlare ha delle pause, necessarie per prendere fiato, ha anche un ritmo e dei toni che dipendono dalle nostre volontà e dai nostri umori. Nel libro, ad esempio, ogni “a capo” altro non è che una pausa della voce, un silenzio. Ricerco la naturalezza e prima di licenziare un testo lo riascolto nella mia testa per capire se i toni e i ritmi sono naturali. Detesto il preziosismo di una parola di uso non comune e ho una paura folle di fare sfoggio del “bello scrivere”. Un giorno una signora mi disse che apprezzava i miei testi ma che la punteggiatura non era corretta: cercai di spiegarle che i miei segni d’interpunzione non obbedivano ad alcuna regola grammaticale perché volevo riproducessero solamente le nostre esitazioni, le nostre incertezze.
D - Migranti, Femminicidio, Odio e Genova: quattro temi portanti interconnessi tra loro, parole in un vocabolario che diventano cronaca. Altri temi che avrebbe voluto inserire?
R - Avrei voluto parlare anche del mondo dell’educazione, come insegnante ho raccolto negli anni tante testimonianze, porto sempre nel cuore i miei studenti, le loro richieste di aiuto, le grida di gioia e di dolore. Ma poi ho pensato che non ce l’avrei fatta, troppo coinvolto sono ancore emotivamente, non ho la distanza sufficiente. In questi giorni di lezioni a distanza per esempio, faccio molta fatica a parlare sapendo che alcuni di loro hanno avuto lutti in famiglia a causa del virus. Non uso la parola, la vivo. Forse un giorno, nei tempi della pensione e “dell’insonnia dei vecchi” (come mi scrisse il mio maestro Mario Rigoni Stern), troverò la necessaria distanza.
D - Non posso parlare e raccontare ogni cosa, il lettore ha tutto il diritto di godersi da solo le parole, le frasi, le pagine con un tempo e un respiro personale e quindi ho deciso di aprire il libro a caso: “La Parola più Bella”
“I punti di sospensione
sono ponti che si addentrano nella nebbia
e sui quali, nessuna parola
rischierebbe il passaggio.
Anche un verbo, se congiuntivo
è un ponte, sebbene sospeso
tra verità e bugia:
ogni parola sa
quanto pericoloso ne sia il transito.
Ma accade talvolta
nella luce più chiara di un giorno d’estate
che la nebbia diradi
e la verità sveli la bugia:
solo allora la parola avanza e
intrepida
rivela la sua bellezza.”
Non mi stancherò mai di ripetere quanto mi sento attratta da ognuna di esse.
Attratta dalle parole, dalla musicalità, dal significato delle storie, dalle contraddizioni; invidio tutta questa capacità. Sembra così facile, ma penso che ci sia un grande lavoro dietro a tutto questo. È vero?
R - Sì, è vero sicuramente, ma vorrei fare una precisazione. Di formazione sono un linguista, mi laureai a Genova con una tesi di Storia della lingua italiana, ma non sono un maniacale cesellatore di parole, non ne inseguo l’eleganza. C’è lirismo, sì, ma questo è già in noi e forse lo percepiremmo meglio se solo sapessimo ascoltarci. Nel testo che tu citi per esempio, ho ripreso quanto ho imparato dai miei studenti parlando di grammatica. Le lingue in origine altro non erano che la rappresentazione del mondo e quando un allievo mi disse che il verbo era un ponte sospeso tra soggetto e oggetto, compresi che quell'agglomerato di regole che sono le grammatiche scolastiche andava cestinato. Non ho mai più chiesto di aprire un libro di grammatica ai ragazzi, mi limito a scrivere delle frasi alla lavagna e ne discutiamo. Un giorno un allievo che in mente aveva solo il gioco del rugby, la sua unica passione, mi disse se poteva scrivere qualcosa su quello che chiamavo “pronome”. Lo incoraggiai. Mi arrivarono cinque cartelle che parlavano solo di rugby. Ma alla fine ho capito: la regola base del rugby dice che la palla ovale può essere passata solo all'indietro, ogni giocatore ha bisogno di un compagno alle spalle, proprio come un pronome ha dietro di sé un nome di riferimento. “Se non fossi un pronome, io non potrei giocare” - mi disse quell'alunno che di grammatica sapeva sicuramente più di me. Il lavoro più importante è dunque quello dell’ascolto. L’ascolto, è la più ardua tra le capacità dell’uomo: ognuno di noi desidera parlare, scrivere, e soddisfare così il proprio ego, ma ascoltare, non è semplicemente recepire suoni che giungono al nostro orecchio, ascoltare veramente significa essere nell'altro, adottare il suo punto di vista, vivere le sue verità.
D - Ho ascoltato il disco di Michele Anelli più volte e a ogni ascolto vedevo confermate le impressioni e le emozioni che queste tracce mi hanno suscitato: un lavoro così variegato di suoni anche all'interno dei singoli brani tutti così autentici. Le otto tracce si susseguono diverse le une dalle altre, dall'iniziale “La Scrittura Umana” dai contorni così fascinosi e seducenti quasi un invito a una sorta di dance, ai riff chitarristici di “Il Vuoto”, alla ritmata “Ulisse” con sorprendente finale di chitarre acide e distorte, passando per la sofferta “Non Era la Pioggia” fino alla “Filastrocca” finale a cui affidare attraverso un coro di bambini un messaggio di speranza e di pace. Il lavoro è ben suonato e ha solide radici in certo Prog italiano anche se l’opera nel suo complesso mantiene freschezza e originalità propri. I testi e le liriche, mai banali, ne impreziosiscono il tutto. Come avete deciso questa collaborazione di poesia e musica?
R - Io e Michele Anelli ci conosciamo da molto tempo, da quando qui sul Lago Maggiore organizzavo concerti. All'epoca lui suonava nei Groovers e cantava in inglese. Poi ci siamo persi di vista per un lungo periodo, quasi trentanni. Una sera di qualche anno fa ci siamo ritrovati in un circolo: io ero lì per raccontare la storia della Diaz e lui per cantare le sue nuove canzoni. Ho ritrovato un amico e nessuno di noi avrebbe saputo dire per quale motivo ci eravamo persi di vista. La vita è strana, si smarriscono i legami, si allenta la memoria. Quella sera sono bastate poche parole per far rinascere in noi il desiderio di collaborare e iniziare nuovi percorsi. Periodicamente ci ritroviamo a cena per parlare di progetti e in una di queste serate abbiamo riflettuto sugli avvenimenti del nuovo secolo, sulla perdita di tanti valori, e abbiamo così condiviso alcune idee con l’idea di rielaborarle in forma di musica e di narrazione.
D - Mi racconta come organizza il lavoro di scrittura?
R - La prima parte del lavoro, come dicevo, inizia dall'ascolto. E se non è un ascoltarsi in presenza, è leggere una testimonianza. Anche la lettura è ascolto, perché porta con sé i suoni del mondo, anche se lontano nel tempo. L’anno scorso ho dedicato dei testi all'esperienza di Erich Maria Remarque e con lui ho rivissuto forti emozioni, qualche anno prima ho chiesto a Dante Alighieri il permesso di raccontare l’Inferno: per due anni ho letto i testi che lui stava leggendo ai tempi della Commedia, mi è parso di capire cosa volesse raccontare e l’ho raccontato, evitando così censure e rimaneggiamenti di suo figlio Pietro. Ma arriviamo a una seconda fase del lavoro: a Verbania sono animatore di un “laboratorio” di teatro di narrazione e in occasione degli incontri settimanali gli attori leggono dei testi, non solo i miei naturalmente. Questa fase è importante perché ognuno di noi ha una sensibilità diversa, un diverso respiro, e ascoltare interpretazioni diverse permette di comprendere molto bene quanto un testo sia in grado di coinvolgere e trasmettere emozioni. Sono vibrazioni che avvertiamo nell'aria ogni volta che un attore legge. Dopo questa fase, ritorno a una rilettura e una riscrittura che possono portare a qualche aggiustamento oppure all'esclusione di un testo.
D - Tutto quello che ha scritto è intorno a noi, talmente vicino che ci tocca in prima persona: parla di Migranti, di Femminicidio, di caporalato, di odio. C’è rabbia e rassegnazione, incapacità nel quotidiano, voglia di non arrendersi per un domani migliore. Si ritornerà a “Prima del Diluvio”? oppure basterà la preghiera alla fine di “The Novel of Life”?
R - Non si ritornerà a “Prima del diluvio” né sarà sufficiente la preghiera di “The Novel of Life”. Il primo testo prende spunto da una leggenda Walser, una popolazione di origine germanica che nell’Ossola ha conservato le sue tradizioni e la sua lingua; racconta dell’età dell’oro, di un tempo in cui gli uomini erano in pace con le divinità e da queste erano protetti. Il secondo nasce dall'idea di restituire alla parola “accoglienza” la sua densità, la sua forza, il suo significato più profondo.
D - “Troppi di noi non vivono i loro sogni
perché stanno vivendo le loro paure
e le paure del giorno rubano, così
i sogni della notte”.
Vivere dei propri sogni è davvero possibile oppure è il rimpianto il sentimento che maggiormente ci accompagna?
R - Se non sconfina nell'utopia, credo che non dovremo mai fare a meno del sogno. La vita è una ricerca continua e tale ricerca è strettamente legata ai nostri sogni. È il sogno che da significato alla nostra esistenza. Tuttavia occorre saper muoversi in quella terra di nessuno che sta tra l’illusione e la realtà, perché le insidie sono molte. La paura, per esempio, ci allontana troppo dalla realtà e ci spinge verso utopie consolatorie destinate a rivelarsi altrettante “fate Morgana”. In questi tempi di emergenza virus, ad esempio, ho letto su un balcone uno striscione con i colori della bandiera italiana e la scritta “la vinciamo noi”. Non molti anni fa, e sempre da un balcone, qualcuno disse “vinceremo!”. In nessuno dei due casi esiste una ragione valida che spieghi la nostra vittoria, il sogno diventa così illusione.
D - Quali sono i suoi progetti per il futuro?
R - Il nuovo progetto, che vedrà la luce nel corso del 2020 è “RESURRECTIO. Un pittore del cinquecento racconta l’umanità nel giorno del giudizio universale”. Questo pittore si chiama Sperindio Cagnoli, di lui non sappiamo quando è nato o morto, ma neppure cosa abbia dipinto esattamente. Sembrerà strano ma le uniche due opere che, stando agli atti notarili del tempo, sono state a lui commissionate e pagate, sono andate perdute. Eppure la sua mano, la sua dolcezza, la sua capacità di dare naturalezza ai volti, si ritrovano in tante chiese del novarese, più o meno dimenticate, più o meno accessibili. Ma quando ho visto il grande affresco del “giudizio” nella chiesa di San Marcello di Paruzzaro, sono rimasto allibito. Ho riconosciuto il tratto del suo pennello in quel gigantesco affresco. Gli ho chiesto: dimmi cosa hai voluto rappresentare. E ho avuto la netta sensazione di sentire la sua risposta. Così l’ho raccontata. Con la sua voce.