· 

Intervista a Davide Grittani

 La bambina dagli occhi d'oliva

Davide Grittani

arkadia / sideKar

foto di Nicky Persico

 

Sandro Tanzi ha quarant’anni, vive da solo nell’appartamento che aveva condiviso con i suoi: il padre è defunto e la madre è ricoverata causa Alzheimer alla casa di cura “Nuove stagioni”. Per vivere gestisce una sala scommesse, il Winner di cui è proprietario. Durante le dodici ore quotidiane che trascorre nel centro scommesse ha messo a punto una tecnica in grado leggere la storia dietro ai volti delle categorie umane, è in grado di scansionare in venti, trenta secondi al massimo prossemica, respiro, sudorazione e labiale di chi sta dall’altra parte dello sportello, classificandolo in precise razze antropologiche o creandone di nuove. Quando rientra a casa la sera ad accoglierlo c’è Alexa che accende la luce del corridoio e lo saluta. Una svolta irreversibile è avvenuta nel momento in cui Sandro Tanzi è stato travolto da un profumo particolare, magnetico nell’ascensore del palazzo in cui abita: così illogico, così fuori luogo per dei vecchi inquilini. Il profumo appartiene ad Angela Capone come l’appartamento che sta ristrutturando e dove è stato trovato un disegno inciso direttamente sul muro sotto la tappezzeria: una bambina in piedi di spalle con una maglia e le natiche fuori e in mano un libro forse un quaderno, un tratto infantile, enigmatico e spettrale

 

D - Com’è nata questa storia?

 

R - Stavo già lavorando alle conseguenze delle disattenzioni degli adulti, sul nostro (sono padre anche io) modo distratto, confuso e spesso irresponsabile di essere genitori, maestri, quando sono casualmente inciampato nella vita di Dolores O’Riordan, la compianta leader dei Cranberries: non in quella artistica arcinota a tutti, ma in quella privata, nella sua tragica infanzia per intenderci. Lì ho capito che questa storia, di fango e riscatto, appartiene a molte più persone di quanto si immagini. E poi, durante un incontro altrettanto casuale a Roma, è arrivato quello che forse era l’ultimo tassello mancante: il grande Dario Argento mi informò che in via Crescenzio a Roma, tra il 1972 e il 1978, alcuni lavori di ristrutturazione portarono alla luce dei disegni macabri sui muri di un appartamento, e che probabilmente quella fu la genesi artistica del suo capolavoro “Profondo rosso”. A me, questa rivelazione, invece diceva che le verità sono così nascoste, e in alcuni casi nascoste bene, che si fa prima e meno fatica a credere a ciò che vediamo. Ma che quasi mai, ciò che vediamo, è verità.

 

D - Nel romanzo ha scelto di non simpatizzare con nessuno dei personaggi, una cronaca di fatti per le strade di Roma. Come autore invece quali sono i sentimenti che ha provato nel raccontare le loro storie?

 

R - Più che non simpatizzare, direi che nel romanzo tengo le giuste distanze da tutti. Tranne che dalla madre di Sandro Tanzi, cioè Ada. In lei, forse, si racchiudono tutte le omissioni e tutti i sensi di colpa della vita per come la intendiamo noi oggi: un duro esercizio di sopravvivenza in cui, quasi in maniera obbligata, siamo costretti a compiere delitti silenziosi quasi giorno. Tutti a fin di bene. Da lei era difficile tenere le distanze, perché in lei si annida il senso vero del romanzo: le cose che avremmo potuto fare, e non abbiamo fatto. Ecco, partendo da questo assunto, un romanzo come il mio non poteva avere alleati – men che meno con il narratore – ma solo complici, peraltro complici occulti.

 

D - L’amnesia infantile che ha colpito Angela. Ci racconta di più?

 

R - Le storie degli uomini, di tutti gli uomini, sono piene di amnesie vere o presunte. Anzi, in alcune patologie è l’escamotage più frequente in cui si rifugia l’uomo (nel senso di essere umano, quindi anche donne, bambini, anziani) quando vuole assolversi o affrancarsi da un determinato passato. Non è un esercizio di stile, è una pratica auto assolutoria vera e propria. Molto in voga oggigiorno, perché si fa prima a cancellarsi le colpe dalla propria fedina umana che chiedere di farlo a una religione che – anche qui ci sarebbe molto da dire – non ascolta più, non accoglie più ma giudica senza compassione. Oggi per entrare in chiesa ti chiedono “che sei venuto a fare”, non dicono “entra”. Così le persone hanno cominciato a giudicarsi e assolversi in maniera del tutto autonoma, in molti casi rinunciando al proprio passato e tagliando veri e propri pezzi di memoria e di vita. È il caso del mio romanzo, della finta malattia di Ada. E dell’amnesia di Angelica.

 

D - Tutti colpevoli: l’indifferenza, il voltare lo sguardo altrove. Un atteggiamento comune a molti, se non a tutti, in qualche modo, non trova?

 

R - Sì, a troppi. Dico sempre una cosa, quando presento questo libro. Che a me non interessa chi spara, nel senso che compiendo un atto così grave ha già scelto dove stare. A me interessa molto più chi vede sparare (nel senso più ampio del termine, ovvero riferito a qualsiasi pratica o condotta illegale, morale, irriguardosa della vita e della sua bellezza) e non dice niente, chi avrebbe il tempo e il modo per dire qualcosa … ma preferisce il silenzio. Per viltà, per codineria, per preservare la propria vita e quindi il proprio benessere, per non intaccare le comodità da cui è circondato, per non farsi cambiare la vita da quell’episodio. Bene, il tema non è solo etico ma pratico. Ovvero convivere poi con una coscienza così pesante, con una condizione così ingombrante. A me interessa molto di più chi poteva dire e non ha detto, quella condizione lì … per me è l’inizio del declino morale di tutti. Dell’Italia, soprattutto.

 

D - La scrittura utilizzata per questo romanzo sottolinea l’aspetto duro, ruvido della storia. È una sua caratteristica oppure è la storia a determinare quale sia la scrittura da usare?

 

R - Io scrivo quasi unicamente così, nel senso che credo che la scrittura debba lasciare una traccia, un solco. Debba indurre nella tentazione di trovarsi di fronte qualcuno, magari uno scrittore. Debba rendere il “sacrificio” dell’acquisto del libro una cosa di andare in qualche modo fieri, una cosa utile. La scrittura distingue l’industria editoriale (che dà lavoro a migliaia di addetti, per fortuna) dall’arte.

 

D - Quanto è stato importante per lei scrivere questa storia?

 

R - Un po’ mi ha cambiato. Cerco di guardare ai miei figli con maggiore attenzione, non sempre ci riesco e questo mi provoca delusione (verso me stesso) e rabbia (idem). Ma cerco di guardare alle loro istanze come a degli appelli, a degli allarmi da tenere nel giusto conto. Insomma alla mia età (52 il prossimo giugno) con molto piacere e con assoluta oggettività, spero (lo spero davvero!) che sia cominciata l’epoca della mia vita in cui l’ordine gerarchico delle attenzioni abbia subito un definitivo mutamento: mi piacerebbe vivere più per gli altri che per me stesso, ascoltare più che parlare, occuparmi dei miei figli più che di me.

 

D - La scia di profumo non ha corpo, ma ha una forza che spinge Sandro a uscire dai binari della sua vita come l’aveva impostata fino a quel momento creando i presupposti per tutto quello che è successo dopo. Siamo tutti collegati? Il passato irrisolto torna… sul luogo del delitto?

 

R - Il passato è sempre sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi. Dipende da quanto siamo disposti ad accorgercene. Conviviamo col passato, sempre. Ne siamo ostaggi, in qualche modo. Che sia bello o brutto, il passato – anche reconditamente – condiziona le nostre vite e le nostre scelte, molto spesso in peggio (nel senso che tendiamo a leggere l’eredità del passato come una specie di nemesi di cui vendicarsi), altre volte (se abbiamo acquisito una dignitosa e utile saggezza, distanza dalle cose) in meglio.

 

D - Nel cruscotto dell’auto paterna ci sono vecchie multe e disegni infantili che Sandro ha preferito rimuovere come se non fossero mai esistiti, ma la loro presenza torna per raccontare una storia passata. Anche a lei capita che l’irrisolto torni a bussare alla sua porta?

 

R - Purtroppo le multe rincorrono anche la mia di vita. E quando le apro, per capire dove sono stato e perché ho preso quella multa, ciò che ho fatto – di bene o di male – mi torna in mente. Perché le multe? Perché se è possibile tagliare la memoria come un frutto di stagione, non è possibile scrollarsi di dosso alcuni tratti di burocrazia che impietosamente ci ricordano cosa siamo stati, cosa abbiamo fatto e perché. Ecco, quei rimandi alla vita di prima … sono àncore da cui è impossibile disincagliarsi. Questo sono per il romanzo, questo sono per me. Non si può andar via dai luoghi in cui si è stati. Può farlo la nostra memoria, non le cellule che portiamo addosso.

 

D - Un romanzo come questo ha richiesto molte ricerche? Come ha organizzato il lavoro?

 

R - Tre anni di duro lavoro, magari con qualche settimana di pausa tra una sessione e l’altra. Ma tre anni di duro lavoro, in alcuni momenti durissimo. La documentazione sulla vita, o meglio sull’infanzia di Dolores O’Riordan è stata molto impegnativa. Anche quella sulla cosiddetta rimozione infantile della memoria, studiando su testi scientifici che non sono abituato a consultare. Ma per il resto il romanzo era abbastanza strutturato nella mia testa, avevo l’idea di scriverlo esattamente come ho fatto. Ma il lavoro di stesura – più o meno sette quelle di questo romanzo – è massacrante. Se si vuole scrivere un romanzo onesto, che abbia un senso di tenuta verso la scrittura e una propria dignità letteraria, è difficile impiegare un tempo inferiore ai tre anni. Poi ci sono quelli che riescono a scriverne tre in un solo anno, ma non sta a me giudicare ciò che scrivono. Chi sono, io, per farlo?

 

D - Quali sono i suoi progetti per il futuro?

 

 

R - Ho appena cominciato a raccogliere materiale per il nuovo romanzo, ed ho anche cominciato a scriverlo (perlomeno quelle parti che sono già molto chiare nella mia testa). Ma bisogna aspettare la scrittura, bisogna aspettare i flussi di coscienza, istinto, ragione e nervi che stanno dentro le parole che mi piacerebbe utilizzare. Senza fretta, senza subire la dannazione di chi deve subito uscire con un’altra cosa per tenere vivo sé stesso. No, non faccio parte di questa frenesia. Per me scrivere vuol dire innanzi tutto sottoscrivere un patto di fedeltà con chi legge, poi rappresentarlo nel più dignitoso dei modi. Intanto mi godo un po’ le soddisfazioni che mi sta dando La bambina dagli occhi d’oliva, poi vedremo. Inoltre a marzo uscirà un numero monografico di Achab su Pier Paolo Pasolini, un numero straordinario con firme davvero molto, molto importanti: tra cui, in maniera del tutto inappropriata, c’è anche la mia. Ecco, servire Pasolini come un discepolo, per me è stato un atto politico, prima che letterario.